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Il Buddismo può essere considerato una religione, ma anche una filosofia di vita.
In che cosa credono gli adepti di Siddhārtha Gautama? Su cosa fonda la ‘dottrina’ di una delle religioni più antiche al mondo?
Il Buddismo non è solo una religione o una tradizione spirituale. Come fatto anche dal Cristianesimo, nel corso dei secoli, ha dato vita ad una raffinata letteratura filosofica. Tra il VI e il V secolo a.C., in India settentrionale visse un giovane di nome Siddharta Gautama.
Fu dal suo ‘risveglio’ – da cui l’epiteto di Buddha, ossia “il Risvegliato” – che ebbe inizio quella che noi oggi conosciamo come buddismo. Colui che gli studiosi chiamano “l’asceta dei Sakya”, ovvero il Siddharta, ebbe il “risveglio” quando si ritrovò davanti alla morte e alla sofferenza. Di casta nobile, riuscì a fuggire dal controllo del padre ed incontrò un vecchio, un malato, un cadavere e un monaco. Da questo momento, si rese conto dell’esistenza della vecchiaia, della malattia e della morte, ma anche della serenità di chi si era staccato dal mondo, come il monaco.
Da qui il punto di partenza della ‘filosofia’ buddista: nel mondo c’è sofferenza, motivo per il quale vanno individuate le cause di tanto dolore. Quale può essere la cura? La via spirituale e ascetica, l’unica che consente di sfuggire alla “catena senza fine del dolore”. Dopo la morte di Siddharta Gautama, il buddismo diede luogo a numerose e differenti scuole di pensiero e si diffuse in tutta l’Asia orientale.
In che cosa credono i buddisti? Gli adepti di Siddharta Gautama credono che l’essere vivente debba essere liberato dalla sofferenza. La vita umana, però, non può evitare la presenza del dolore e della morte per un motivo molto semplice: tutto ciò che ha un principio deve avere una fine. Ogni esistenza, dunque, è passeggera e nulla si può considerare permanente. Questa ‘realtà’ non riguarda non soltanto l’individuo, ma tutto ciò che è nell’Universo: anche gli dei un giorno cesseranno di esistere.
La sofferenza, in conclusione, è propria dell’essere umano e fa parte della sua vita fin dalla nascita. La non consapevolezza di questa verità è definita ‘ignoranza’ ed è proprio in questa che risiede la radice del dolore e della sofferenza che spesso proviamo. Lo scopo della vita del buddista, quindi, è raggiungere l’illuminazione. Questa non si trova nel lusso estremo, ma nelle piccole cose. Quelle che potremmo definire ‘regole di comportamento’ si basano su quattro nobili verità:
Cos’è il nobile sentiero? Un insieme di: giusta visione, giusta intenzione, buon dialogo, giuste azioni, essere un sacerdote, impegno verso le cose giuste, meditazione e concentrazione.
Il Buddismo ha cinque ‘regole di comportamento’, che possiamo definire precetti e che sono state formulate dallo stesso Siddhartha Gautama. Queste hanno lo scopo di rendere la vita meno stressante, in armonia e in pace con se stessi ma anche con gli altri, indirizzandola verso il Nirvana.
Sono:
I buddisti credono nella reincarnazione. Dopo la morte, l’anima di una persona si va a reincarnare in un’altra. Si tratta di movimenti nello spirito che descrivono una migrazione in altri corpi, che possono essere anche vegetali, animali o minerali. Le reincarnazioni avverranno fino a che l’anima non si sarà completamente liberata dalla materialità. Secondo i buddisti, la reincarnazione non è un premio e nemmeno una punizione.
Si tratta di una sorta di purificazione dell’anima. L’individuo ha già la sua “punizione” nella vita terrena materiale e, quindi, non ne ha bisogno di altre. Attraverso i meriti accumulati in infinite incarnazioni, l’individuo rientrerà nel “Tutto Divino“, ma perderà così la sua individualità.
Secondo gli insegnamenti buddisti, quando la coscienza abita il corpo riusciamo ad avvertirla. Quando il corpo muore, essa sparisce, anche se non finisce di esistere.
Entrerà così in un corpo nuovo. Più che una vera e propria reincarnazione, nel Buddismo è più giusto parlare, quindi, di rinascita.