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Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha scosso profondamente l’opinione pubblica, portando alla luce le dinamiche di una relazione tossica che si è trasformata in un incubo. La corte d’Assise di Venezia ha emesso una sentenza che condanna Filippo Turetta all’ergastolo, un verdetto che arriva dopo un lungo processo e che evidenzia la gravità della violenza di genere. Giulia, a soli 22 anni, aveva un futuro luminoso davanti a sé, con una laurea in ingegneria biomedica in procinto di essere conseguita e il sogno di diventare illustratrice.
Tuttavia, la sua vita è stata spezzata da un compagno che, da amico, è diventato un oppressore.
La sentenza ha messo in evidenza non solo l’omicidio, ma anche la lunga serie di abusi psicologici che Giulia ha subito. Turetta ha utilizzato minacce, ricatti emotivi e una strategia di manipolazione continua per controllare la giovane. Questo aspetto della violenza è spesso sottovalutato, ma è fondamentale per comprendere la gravità della situazione.
Le parole dei magistrati, che hanno descritto il legame tra Giulia e Turetta come un cocktail letale di amore e ossessione, evidenziano come la violenza non si manifesti solo attraverso atti fisici, ma anche attraverso un costante logoramento psicologico.
La decisione della corte di escludere le aggravanti della crudeltà e dello stalking ha sollevato interrogativi e polemiche. Come può un delitto così atroce, caratterizzato da 75 coltellate e mesi di tormento psicologico, non essere considerato nella sua interezza? Ignorare questi elementi significa sminuire la tragedia vissuta da Giulia e dalla sua famiglia.
La sentenza, pur rappresentando un passo avanti nella lotta contro il femminicidio, deve anche servire da monito: la violenza di genere non è solo fisica, ma si nutre di manipolazione e controllo, elementi che devono essere riconosciuti e combattuti con fermezza.