Una leggenda metropolitana vuole che di AIDS non si muoia più, e che tutto sommato sia una malattia ormai poco diffusa.
Nell’anno scorso solo in Italia i nuovi contagi sono stati 2531, un numero che ci parla della sua ancora più che vitale esistenza. La vergogna che accompagna il dichiararsi sieropositivo, però, è ancora alta, e per questo bisogna affrontare il tema.
L’1 dicembre è la giornata mondiale contro l’AIDS, una pandemia che silenziosamente sparge ancora vittime nel mondo. L’Istituto superiore di sanità, insieme al Ministero della salute, proprio in occasione di questa ricorrenza, hanno reso noti alcuni numeri del fenomeno.
Analizzando i dati relativi all’anno scorso si nota un calo dei contagi rispetto agli anni precedenti ma restano comunque elevate le diagnosi nella fascia dai 25 ai 29 anni e ben 6 diagnosi su 10 avvengono in ritardo, ad uno stato della malattia ormai avanzato. L’età media dei sieropositivi è circa 40 anni e, nel 2019, per la prima volta, la percentuale di contagi dovuta a rapporti sessuali tra uomini raggiunge quella inerenti i rapporti eterosessuali.
Le diagnosi negli uomini restano le più elevate: l’80% dei nuovi casi è di sesso maschile. I decessi, al contrario dei nuovi contagiati, rimangono stabili: circa 500 all’anno.
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Se estendiamo lo sguardo all’intero pianeta noteremo numeri ancora importanti: nel 2018 ben 770mila persone sono morte a causa dell’HIV, come rivela l’UNAIDS, il Programma delle Nazioni Unite per l’HIV/AIDS.
La malattia insomma, esiste, e miete ancora vittime. Ma una delle paure più grandi di chi è risultato positivo è il coming out, il confessarlo agli altri. L’idea di essere bollato come un “peccaminoso” è ancora viva nella nostra società e ciò fa sì che rivelare di essere sieropositivo sia complicato e causa di discriminazioni, soprattutto per gli omosessuali. L’1 dicembre, giornata mondiale contro l’AIDS, ha solo lo scopo di ricordare quanto dolore e quanti lutti provochi ancora l’HIV ma anche quello di liberare dai pregiudizi l’esserne malati.
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