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Grande voce della seconda metà del ‘900, Hannah Arendt presta la sua esperienza e i suoi studi per approfondire la conoscenza dell’animo umano. Una tra le tante testimonianze fondamentali, insieme a quella di Primo Levi per esempio, in momenti come la giornata della memoria che dedica un pensiero a quello che è stato l’olocausto.
Chi era Hannah Arendt: vita della grande pensatrice americana
Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 New York, 4 dicembre 1975) è stata una politologa, filosofa e storica americana naturalizzata tedesca. Dopo aver lasciato la Germania nazista nel 1933, a causa delle persecuzioni dovute alla sua origine ebraiche, è rimasta apolide dal 1937 al 1951, anno in cui ha ottenuto la cittadinanza statunitense.
Ha lavorato come giornalista e docente universitaria e ha pubblicato importanti lavori di filosofia politica. Terminata questa fase, Hannah Arendt si è trasferita ad Heidelberg dove si è laureata con una tesi sul concetto di amore secondo St.Agostino. Nel 1929 sposa il filosofo Gunther Anders, dal quale si separa nel 1937.
Successivamente lascia la Germania per Parigi, dove incontra il critico letterario marxista Walter Benjamin. Durante il suo soggiorno in Francia, fa di tutto per aiutare gli ebrei in esilio fuggiti dalla Germania nazista. Dopo la seconda guerra mondiale si riunisce al filosofo Heidegger che sostiene nel processo in cui viene accusato di aver favorito il regime nazista durante la guerra.
Il processo Eichmann e la banalità del male
Nel 1961 Hannah Arendt fa le veci del New Yorker a Gerusalemme per seguire il processo Eichmann, il quale si pone l’obiettivo di decidere le sorti del braccio destro di Hitler. Interessanti sono state le riflessioni della giornalista che si sono trasformate poi nel celebre libro “La banalità del male”. Questo infatti il quesito che tormenta la Arendt: può chi non è malvagio fare del male? Lei stessa definì Eichmann un uomo noioso, un semplice burocrate spinto a rispettare degli ordini. Il suo essere inetto la porta a trovare una risposta alla grande domanda posta.
“Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.
I punti chiave del suo pensiero politico
La prima distinzione che l’autrice sottolinea è quella tra chi siamo e cosa facciamo, fondamentale per rispondere al quesito. A questo si unisce un aspetto storico, ossia come i totalitarismi abbiano alienato l’uomo e privato della propria individualità e giudizio personale.
La prospettiva dell‘inclusione dell’altro è importante, cioè di ciò che ci è estraneo. Politicamente, le convenzioni e le leggi dovrebbero funzionare in modi pratici e a livelli appropriati, quindi tra persone ben disposte.
Come risultato delle sue ipotesi, la Arendt si è trovata contro la democrazia rappresentativa, che ha fortemente criticato, preferendo un sistema basato sui consigli o forme di democrazia diretta. Principalmente grazie al suo pensiero indipendente, alla teoria del totalitarismo (Theorie der totalen Herrschaft), ai suoi lavori sulla filosofia esistenziale e alla sua pretesa di libera discussione politica, Arendt occupa un posto centrale nei dibattiti contemporanei.