“These days are ours / Happy and free (Oh Happy Days) / These days are ours / Share them with me (Oh Happy Days)”
Era il 15 gennaio 1974 quando l’emittente televisiva americana ABC trasmise la prima puntata della sit–com Happy Days, una serie che avrebbe raccolto un grandissimo successo, arrivando al ragguardevole traguardo di 11 stagioni per un totale di 255 episodi.
Ideata da Garry Marshall, Happy Days si proponeva come una sorta di balsamo catodico, una melassa seriale per tutti coloro – e non erano pochi, a quanto pare – che non si riconoscevano più in un Paese in cui la contestazione e gli sconvolgimenti sociali erano all’ordine del giorno.
La famiglia Cunningham e tutti i loro amici avrebbero riportato in vita una visione idealizzata (e quindi necessariamente “aggiustata”, se non del tutto falsa) di quegli anni ’50 e primi ’60 tanto amati dai conservatori come un’epoca edenica e pacificata.
Il simpatico Richie (Ron Howard), un ragazzo qualunque senza troppi grilli per la testa, il padre Howard (Tom Bosley), amabile brontolone refrattario a qualsiasi cambiamento, la madre casalinga Marion (Marion Ross), tanto in grado di mettere in crisi il marito quanto poi di assoggettarsi alle sue decisioni, la figlia minore Joanie (Erin Moran), piccola guastafeste incallita, il leggendario Arthur Fonzarelli, il Fonzie (Henry Winkler), ovvero il grande amatore, il mito dal perenno giubbotto di pelle, duro solo di facciata ma con un gran cuore, gli amici svitati Potsie (Anson Williams) e Ralph (Donny Most).
Un intero cast cui capitavano delle piccole disavventure che si chiudevano (quasi sempre) con un rimbrotto, un buffetto, il deus-ex-machina di Fonzie, e una lezione da imparare per la prossima volta. Eterne pomiciate, nessun riferimento al sesso, jukebox, hamburger, risate a denti stretti e risse risolte verbalmente più che a cazzotti: Happy Days potrebbe essere descritto come l’epitome dell’eufemismo.
In Italia è stata trasmessa dai Rai 1 a partire dalla stagione 1977/78, garantendosi lo stesso seguito fedele trovato in patria e lanciando tutta una moda che avrebbe pesantemente influenzato gli anni ’80 (e non solo, si veda Matteo Renzi ad Amici).
Il percorso artistico dei protagonisti, una volta conclusasi la serie, non è stato dei migliori, e solo Ron Howard, che ebbe la lungimiranza di lasciare prima della decadenza (rappresentata in genere dal salto dello squalo su motocicletta a opera di Fonzie), può dirsi pienamente soddisfatto.
Howard è infatti divenuto un regista di grido di Hollywood che ha realizzato opere molto interessanti come Frost/Nixon, Cinderella Man, Rush, ma anche immondizia da blockbuster quali Angeli e demoni e Il codice da Vinci.
Henry Winkler invece si è costruito una carriera composta da piccole parti cinematografiche, teatrali e televisive, con un’ovvia proliferazione di ruoli da guest-star, spesso con riferimenti al suo iconico personaggio.
Tom Bosley, scomparso nel 2010, è da tutti ricordato come lo sceriffo di Cabot Cove della celeberrima serie La signora in giallo. Per tutti gli altri, purtroppo, è sopraggiunto l’oblio.
Ma Happy Days difficilmente verrà dimenticato, anche se più per il suo grande valore storico che per l’effettiva qualità artistica.