I casi sono due: o il Decameron di Daniele Luttazzi fa cagare, allora si merita una prima recensione e poi lo si può sbattere nella sezione oblio, oppure il Decameron è un programma scomodo, quindi la stampa tradizionale ha tutte le ragioni per non parlarne: non sia mai che si abbandonino così le proprie caratteristiche.
Sarebbe come parlare, almeno per una volta, delle inchieste di Report il lunedì mattina. Eccheè? Siamo pazzi?
I blog invece – abitati da gente rozza, ignorante, insignificante e sola – del Decameron ne parlano. Eccome. Io il mio giudizio sulla trasmissione, che rimane invariato, lo avevo già espresso in questo post, ma qualcuno de La Stampa finalmente si è accorto che la stampa (con la s minuscola, e non solo per ragioni di nome proprio) sembra sbattersene del ritorno di Luttazzi in tv.
Una cosa è vera: Marco Paolini, che ho rivisto volentieri anche in tv, ha fatto il 5,6% di share su La7. Risultato interessante, visto che sappiamo bene di cosa stiamo parlando: di quella roba lì che gli italiani identificano con le grazie di Manuela Arcuri nel remake di Pretty Woman; il miglior modo per vedere le tette di Manuela dal vivo, su un palco.
Vabbè, dicevamo che Paolini è stato giustamente osannato per il risultato, Luttazzi invece viene snobbato anche se fa il 6%.
A mezzanotte. Di sabato.
Allora celebriamolo qui, citando anche Andrea Scanzi de La Stampa che ha intervistato Daniele Luttazzi.
Due milioni e mezzo di ascoltatori nonostante l'orario (il sabato dalle 23.30 a 0.30 su La7). Decameron, il programma con cui Daniele Luttazzi è tornato in tv sei anni dopo l'ukase bulgaro, è un piccolo caso. I giornali, però, ne parlano poco. Un po' è per decisione dell'autore (questa è la sua prima intervista), un po' per «un disegno preciso».
Perché il riferimento a Boccaccio?
«E’ il libro che ha fondato la cultura laica italiana, autonoma da quella religiosa: un'esigenza oggi primaria, in un paese in cui pullulano anatemi papali, teodem e teocon. C'è poi il rimando alla peste. Boccaccio scrisse il Decameron durante la peste fiorentina del 1348, immaginando dieci ragazzi nascosti in campagna per raccontarsi dieci novelle. Ogni puntata si rifà a una novella. Un esempio? Nella prima lui affrontava la corruzione del clero, io ho parlato della pedofilia nella Chiesa, con un chiaro riferimento a Marcinkus».
Qual è la «peste» attuale?
«Il pensiero guerrafondaio-reazionario. Michel Foucault parlava del meccanismo di controllo dello stato sul cittadino: individuava un "modello lebbra", che comportava l'allontanamento del contagiato, e un "modello peste", che contemplava il suo controllo. E Marshall McLuhan aveva immaginato che, nell'età elettronica, il "lavoro" principale del potere sarebbe stato il controllo totalizzante sui cittadini. Si perde la libertà, a decidere è una oligarchia. E ogni tanto ci illudono con la nascita di un Partito Democratico».
Sesso, politica, morte, religione: i temi della (sua) satira.
«La satira è un genere che usa come tecnica la riduzione al corporale, per ottenere un rovesciamento di senso. Nei secoli scorsi faceva parte dell'oscillazione dell’immaginario tra sacro e profano. Oggi esiste solo il sacro».
Lei teorizza molto. Non c'è il rischio di ridere poco e parlare a una nicchia?
«L'autore satirico può proporre solo ciò che fa ridere lui, sperando che anche altri ridano.
Non mi sono mai preoccupato del pubblico, il mio tipo di satira ha anticipato in Italia l'ondata dei Southpark, Simpsons, Borat. La satira deve sempre spostare in su l'asticella. Come diceva Georg Lichtenberg, "Più si conosce l'umorismo, più si diventa esigenti in finezza"».
Però la accusano di essere volgare, di non far ridere, di rovesciare bile.
«Dire che non faccio ridere è una calunnia che mi danneggia, può considerarsi come reato, perché se uno spettatore ignaro ci crede poi non viene a vedermi.
Nei miei spettacoli ridono di continuo, per due ore e mezzo. Rovescio bile? I monologhi di Decameron sono la "versione poetica", ne avevo altri ben più duri. Ho cercato di sublimare una rabbia personale profonda, derivata dai soprusi subiti: capisco la famiglia Biagi, quando afferma che la morte di Enzo è legata al diktat berlusconiano. Tutti i grandi satirici sono stati accusati dai tromboni di volgarità: Aristofane, Terenzio, Ennio, Boccaccio, Ruzante, Sterne, Molière.
Sono in buona compagnia, un nano sulle spalle dei giganti».
Del suo Decameron si parla poco.
«Non mi colpisce la mancanza di applauso, ma l'incompetenza dei critici. Stanno sottovalutando un programma complesso, dove faccio tutto io, dai testi ai jingle, dalle scenografie alle didascalie. Se i critici non lo capiscono, significa che si meritano i reality e la tv-spazzatura. Dietro c'è un disegno preciso: l'oblio. Vogliono disinnescarmi. Marco Paolini ha fatto il 5.6% di share e tutti l'hanno celebrato, io faccio il 6% a mezzanotte di sabato e nessuno mi considera.
Nella seconda puntata ho ricordato l'ipocrisia di tutti gli impuniti che, dopo avere accettato l'ukase ai danni di Biagi, hanno ricordato il "giornalista libero". Vespa, Mimun, Casini, Fini: quando agisci così, ti fai molti nemici».
A La7 come si trova?
«Ho carta bianca, ci ritrovo lo spirito pluralista della Raidue di Freccero. Posso parlare liberamente degli scandali di Telecom e Tronchetti Provera».
Grillo le ricorderebbe che, per Telecom, ha fatto uno spot.
«Era sul 187, un nuovo servizio per i clienti. Non ho nulla contro la pubblicità, l'ha fatta anche Woody Allen. Non sono un luddista come Grillo».
La stupisce che di Grillo non si parli più?
«Quando porti al parossismo la protesta, è nell'ordine delle cose che poi ci sia il riflusso. Su Grillo ho eccezioni sul cosa e sul come. Dopo il V-Day è scivolato spesso, ad esempio sui romeni».
Dopo l'omicidio di Roma, Veltroni ha detto le stesse cose.
«Bisogna distinguere tra il Veltroni politico, che ha idee sensate sul sociale, e il Veltroni privato, che si è lasciato sfuggire uno sfogo "quasi" razzista. Ci sono molte cose che non mi piacciono di questo governo, a partire dalla missione in Afghanistan tuttora mascherata come "di pace". Vado però controcorrente, dicendo che Prodi è lento ma sta governando bene. Mi piacciono il ministro Ferrero, la finanziaria e le leggi su falso in bilancio e class action».
Su Youtube c'è un suo monologo del 1988. Quanto è cambiato da allora?
«Doc di Gegè Telesforo: la mia prima cosa in tv. Il modello era Woody Allen, più umorismo che satira. Al di là dell'apparente timidezza, c'erano battute di una durezza inaudita. Si vedeva ciò che sarei diventato dopo anni di studi. L'altro giorno ho guardato un filmino familiare, avevo 4 anni, a un certo punto reagisco a mio zio: la mimica era quella di adesso.
Creavo già attrito».