Marina Abramovic: l’esperimento della donna come oggetto

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Marina Abramovic è una delle artiste più note e discusse del nostro tempo, non solo per le sue performance estreme, ma anche per la sua vita, vissuta sempre sopra le righe.

Ella si è autodefinita “grandmother of performance art“, cioè la nonna dell’arte performativa, e ad oggi è certamente uno dei grandi nomi dell’arte contemporanea.

Vediamo insieme la biografia della Abramovic e le sue principali opere.

Marina Abramovic: biografia

Nata a Belgrado, capitale della Serbia, il 30 novembre 1946, da due eroi della Seconda Guerra Mondiale: la madre di Marina lavorò come direttrice del Museo della Rivoluzione e Arte, mentre il padre, eroe nazionale, la iniziò allo studio dell’arte.

L’artista ha raccontato che i genitori, entrambi membri del Partito Comunista, l’hanno educata con durezza.

Dal 1965 al 1972 ha studiato all’Accademia delle Belle Arti di Belgrado ed è attiva nel campo delle arti performative dal 1973: la sua prima performance è Rhythm 10. Da allora la carriera dell’Abramovic non si è più fermata e negli anni è arrivata alla consacrazione mondiale; nel mentre, Marina ha lavorato come insegnante in diverse accademie d’arte europee, come quella di Novi Sad, Berlino e Parigi.

La Abramovich è stata sposata due volte: con Neša Paripović, dal 1971 al 1976, e con Paolo Canevari, dal 2005 al 2009. Recentemente l’artista ha causato grande scalpore con la sue dichiarazioni sul fatto di aver abortito tre volte per favorire la carriera.

Marina Abramovic: opere

Le performance dell’artista serba sono tutte legate dallo stesso filo comune: esse esplorano la relazione tra artista e spettatore, focalizzandosi sul superamento dei limiti corporali.

Spesso le sue esibizioni l’hanno portata a subire violenze, a ferirsi, a incidere la propria pelle: in sintesi, a rendere il proprio corpo un oggetto performativo.

Una delle opere più celebri e controverse della Abramovic, un esperimento che la vede estremizzare la condizione della donna come oggetto, fu Rhythm 0: la performance si svolse a Napoli nel 1974 e scosse pubblico e media non solo per la sua originalità, ma anche per il dato di crudeltà umana che emerse.

L’artista rimase in piedi per sei ore, dalle 20 alle 2 di notte, e fu indicato al pubblico che sarebbe stata priva di qualsiasi volontà, come un manichino, quindi gli spettatori avrebbero potuto farle ciò che volevano. Al pubblico erano messi a disposizione 72 oggetti: alcuni di piacere, come fiori e piume, ma anche strumenti potenzialmente letali, come pistole e rasoi.

All’inizio il pubblico rimase titubante, ma con il passare del tempo la violenza perpetrata nei confronti dell’artista si fece sempre più intensa: c’è chi la ferì con un rasoio, chi le strappò gli abiti, chi tentò un approccio sessuale, chi addirittura le puntò una pistola alla gola.

Lo scopo della Abramovic era dimostrare quanto facilmente la violenza si possa intensificare quando delle persone sono poste in una condizione di potere rispetto a qualcun altro. Questa condizione è la stessa che sta alla base delle violenze di genere o del bullismo, in cui la vittima è vista come un oggetto senza una volontà e un’umanità propria, elemento che nella performance era estremizzato nell’immobilità di Marina.