Una bellissima copertina quella del prossimo numero di Io Donna, dedicata all’attrice Michelle Yeoh, interprete del fil “The Lady”.
Come sempre, solo per World Celebrities, l’anteprima esclusiva dell’intervista.
“Il laborioso network delle celebrity per i diritti umani è quasi tutto riunito nella splendida lounge déco dell’Astor Cinema di Berlino. Bianca Jagger è già in platea, Angelina Jolie è in arrivo. Mobilitazione massima per The Lady, il film che Luc Besson, il regista di Léon e Nikita, ha dedicato ad Aung Sang Suu Kyi. C’è anche Michelle Yeoh, che del premio Nobel per la pace è l’interprete: minuta sui tacchi altissimi (ma il figlio di Aung Sang Suu Kyi, quando si incontrarono, le disse: «Mia madre è più magra di te»), oggi persona non grata alle autorità di Rangoon, capitale del Myanmar (ex Birmania), che le hanno impedito di visitare per una seconda volta la leader dell’opposizione negandole l’ingresso nel Paese.
E c’è Besson che, nonostante dichiari periodicamente di volere lasciare il cinema, continua a fare film e a produrli. E a proposito di quel che stiamo per vedere, ammonisce: «Guai a chi non piange».
Bandito in Myanmar, dove pare abbia battuto ogni record di distribuzione clandestina, The Lady sta iniziando il suo viaggio tra le sale del mondo con il patrocinio di Amnesty International. Da noi si vedrà il 23 Marzo.
Famiglia cinese, ma cresciuta in Malesia, studi in Gran Bretagna, eroina dei film d’azione di Hong Kong, poi di grandi produzioni hollywoodiane, da Agente 007-Il domani non muore mai a La tigre e il dragone, Michelle Yeoh, a 49 anni, con The Lady – dice – realizza il film di una vita. «Se mi fosse arrivata una proposta simile a venti o trent’anni non avrei avuto la maturità per affrontarla. È come se tutto quello che ho fatto fin’ora, errori compresi, mi avesse preparato a questo momento».
Interpretare un mito e renderlo privato: questo intende?
Quando diedero il Nobel per la pace a Daw Suu (la chiama così, come tutti in Birmania, cioè affettuosamente “zia Suu”) ero fuori di me dalla gioia. Una donna asiatica era per il mondo intero un esempio di fermezza e coraggio. Ma quando ho letto il copione – non la storia del mito, di una santa, di un’eroina, ma di una donna di fronte a un dilemma privato, cioè restare in Birmania e continuare la lotta di liberazione in nome del suo popolo o raggiungere il marito amatissimo che stava morendo di cancro a Oxford – ho avuto pensieri egoistici: volevo farlo a ogni costo quel film.
Aung San Suu Kyi scelse di rimanere. Era la cosa giusta da fare, secondo lei?
Il marito di Daw Suu e i loro due figli sono sempre stati con lei, hanno sostenuto la sua scelta. La giunta militare ha capito che l’unico modo di indebolirla era tagliare i suoi legami, allontanarla dai suoi cari, ma il suo albero aveva radici forti. Anche grazie al fatto di essere tanto amata. Si dice sempre che dietro ogni grande uomo c’è una grande donna.
Qui è stato l’opposto.
Aung San Suu Kyi è stata una casalinga per anni, viveva a Oxford, tirava su i figli. Che cosa ha fatto di lei una leader?
Il senso del dovere. Che sua madre deveaver instillato in lei: suo padre, un eroe permilioni di persone, è stato ucciso dai militariquando lei aveva solo due anni. DawSuu ha studiato filosofia, scienze politiche,ha lavorato alle Nazioni Unite, ma ha tenutolatenti quelle competenze per anni,fino a quando la sua forza non è esplosa.
Senon fosse stata pronta per essere una leaderavrebbe lasciato passare l’opportunità senzanemmeno accorgersene.
Anche lei ha studiato in Gran Bretagna, come molte ragazze asiatiche che poi diventano cittadine del mondo.
Mio padre mi ha mandato a studiare in Inghilterra perché aprissi gli occhi su altre culture, perché non restassi una ragazza di Chinatown per sempre. Sono partita da sola a 15 anni, ma non ero spaventata. I miei sono stati bravi, hanno fatto sì che avessi uno scopo nella vita, da teenager già sapevo quello che volevo fare, dove volevo andare.
Non mi preoccupava l’idea di lasciare il nido e badare a me stessa.
I suoi sono stati dei genitori “Tiger”?
Per niente. Amy Chua (l’autrice del Grido di battaglia della madre tigre, ndr) è stata una tiger-mother perché aveva figli con talenti speciali. Io non ero speciale, non c’era ragione di fare pressioni su di me. I miei sono stati severi e affettuosi allo stesso tempo.
Sua madre però l’ha candidata al titolo di Miss Malesia.
E lei ha vinto.
Per me è stata soprattutto un’esperienza intellettuale. Non mi ha dato nessuna speciale sicurezza sapere di essere bella col certificato. Più di un naso perfetto o di un corpo impeccabile la bellezza può venire dal modo in cui parli, da come ti muovi.
Anche James Bond l’ha approcciato dal punto di vista intellettuale?
Quando mi hanno proposto di fare la Bondgirl effettivamente la mia prima reazione èstato di tirare un cuscino al mio interlocutore,poi l’ho presa sul ridere.
È nota perché esige di fare da sola anche le scene d’azione più pericolose.
Una volta mi sono quasi rotta la schiena.
E a trovarla è venuto Quentin Tarantino.
Ero ingessata e con il busto, avevo pochissima voglia di ricevere visite, ma Quentin che è un grande fan del cinema asiatico aveva sfinito la mia assistente che alla fine gli disse di sì. Ricordo questo gigante dinoccolato che entra in casa mia, si siede per terra e comincia a citare a memoria tutte le scene e gli stunt che avevo fatto.
Favoloso.
Gira scene d’azione ma quando, anni fa, si è sposata (con il businessman di Hong Kong Dickson Poon), ha smesso di lavorare: un mix di coraggio e tradizione.
È molto coerente in realtà. La mia filosofia è che quando fai una cosa devi farla bene. Il matrimonio era una cosa in cui volevo mettere me stessa al cento per cento. Molti si sono sorpresi che abbia deciso di lasciare il set, perché ero all’apice della carriera.
E hanno concluso che doveva essere stato lui, il “maschio asiatico sciovinista”, ad avermi obbligata. Ma la decisione era stata mia: nessuno potrebbe mai impormi una scelta esistenziale così importante. Sapevo che il mio matrimonio non avrebbe funzionato se fossi stata via sei mesi all’anno su un set. Non è stato un sacrificio, ho avuto momenti bellissimi. Poi, certo, è finita, ma ho potuto concludere che avevo fatto tutto il necessario per far funzionare la convivenza, ed è anche grazie a questo che io e il mio ex marito oggi siamo buoni amici.
È questa la ragione del suo lunghissimo fidanzamento con Jean Todt, perché sa che se si sposa dovrà scegliere ancora?
No, questo è un altro periodo della mia vita, allora ero più giovane, volevo avere una famiglia, dei figli. Ci sono donne – Tilda Swinton, Michelle Pfeiffer, Kate Winslet – che un giorno fanno un film, il giorno dopo le vedi con la pancia, e poi via, un altro film. Sono multitasking, un talento che io non ho.
In fondo Jean e io stiamo bene così. Viaggiamo molto insieme, lo accompagno nei suoi fantastici giri per il mondo. Sto per partire per un tour africano che mi porterà in Congo, Costa d’Avorio, Senegal. E lui mi raggiunge sui set. Siamo due frequent flyer dell’amore. Il matrimonio è un pezzo carta, è importante formalizzare l’unione solo se hai bambini. E mi piace prenderloin giro: «Adoro che tu ogni tanto mi chieda di sposarti».
Nessun dilemma, quindi, in questo caso?
Tutti dobbiamo prendere piccole e grandi decisioni, ogni giorno ci si impongono delle scelte, ma l’importante è dare alle cose le giuste proporzioni. Si può fare una tragedia di tutto, o semplificare ogni cosa. Io sono a basso mantenimento…
Nel senso di Harry ti presento Sally?
Esattamente. Meg Ryan era ad altissimomantenimento.
Quando ordinava la torta chiedeva la panna a parte. Ma simulava ottimi orgasmi.
Multitasking. Anche lei. “
Per tutte le immagini: Lucywho