Non tira una bella aria in Grecia, per usare un eufemismo la cui distanza dalla realtà è sotto gli occhi di tutti.
E di questo stato di cose, volontariamente o meno, in modo diretto, metaforico o per semplice osmosi, testimoniano le pellicole provenienti dal Paese più funestato dall’attuale congiuntura economica e stritolato dalle misure di austerity imposte dall’alto.
Titoli come Kynodontas – Dogtooth, Attenberg, Alps, The Eternal Return of Antonis Paraskevas e molti altri, rappresentanti di una (per ora solo ideale) nuova ondata ellenica, disegnano uno scenario umano di violenza, sopraffazione e alienazione che abita quel vuoto assoluto, quel cratere fumante, quella polveriera pronta a scoppiare che è oggi la società greca.
In questo alveo culturale si inserisce Miss Violence, opera seconda di Alexandros Avranas, presentato alla scorsa Mostra del cinema di Venezia, premiato con il Leone d’argento alla migliore regia e la Coppi Volpi attribuita al protagonista Themis Panou. Una vittoria che, sulla scia delle voci che attribuiscono al Palma d’oro di La vie d’Adèle a una presa di posizione politica, potrebbe sembrare un gesto di sfida nei confronti degli statisti che stanno mettendo a ferro e fuoco l’Europa.
La pellicola si apre immediatamente con una tragedia: la piccola Angeliki nel giorno del suo undicesimo compleanno, approfittando della distrazione della sua famiglia intenta a festeggiarla, apre la finestra e si getta nel vuoto. Sulle sue labbra un sorriso. Dopo aver assistito agli usuali interrogatori di polizia e servizi sociali veniamo condotti dietro le porte chiuse della casa in cui è avvenuto il suicidio. Scopriamo così che quello che sembrava un tranquillo nucleo nasconde invece una quotidianità di umiliazioni, costrizioni, sevizie fisiche e psicologiche perverse e angoscianti eppure non troppo distanti da ciò che il consesso sociale lascia passare come “normalità”.
Abbeveratosi senza ombra di dubbio alcuno alla celebrata e ormai accademica fonte dell’austriaco Michael Haneke (il modello, su tutti, è l’inquietante Funny Games), Avranas costruisce una versione glaciale e rigorosissima di un dramma da camera claustrofobico. I rapporti famigliari vengono dissezionati sul tavolo da laboratorio di una messa in scena implacabile, che fa spesso uso di tagli di inquadratura che spersonalizzano ambienti e personaggi, vittime e carnefici allo stesso tempo del gioco al massacro che si consuma tra le quattro mura di casa.
Pochi, fugaci e insignificanti gli attimi di empatia che sono concesso allo spettatore, il quale si trova sballottato e inizialmente confuso tra un atto di crudeltà apparentemente ingiustificato e l’altro (efficacissimo, tra l’altro, lo svelamento graduale dei gradi di parentela dei protagonisti). Sono tanti i pugni che Avranas scaglia contro il suo pubblico, colpi diretti più alla mente che allo stomaco (se si eccettua una scena, invero un po’ fuori contesto). Tutti raggiungono il bersaglio, ma il distacco emotivo, evidentemente ricercato e sapientemente attuato, impedisce una partecipazione attiva a ciò che compare sullo schermo.
Quella del cineasta, insomma, è più una lunga metafora che una narrazione, dato che le svolte della trama sono davvero minime. Se quindi dal punto di vista del coinvolgimento il film è un fallimento, da quello della significazione è un successo, anche per il modo in cui si riesce a far arrivare senza troppi voli di immaginazione (fotografia desaturata e recitazione controllatissima) un discorso sulla violenza intrinseca all’autorità e sulla passiva accettazione di questa.
La famiglia è sineddoche di un Paese intero, questo è evidente, ma è molto facile allargare il campo incluedendo qualsiasi sistema politico-economico basato su rapporti di forza sbilanciati, in cui chi domina è sicuro della propria posizione grazie alla silente approvazione dei sottoposti e alla mancanza di una prospettiva alternativa.
Esercizio di stile manipolatorio, formalista e asettico, Miss Violence, almeno come discorso teorico (e qui forse sta il suo limite maggiore) è tuttavia necessario per i nostri tempi.