In Italia la prima causa di morte per le giovani donne è la violenza maschile di mariti, compagni ed ex fidanzati. Si chiama femminicidio e si moltiplicano gli appelli per fermarlo. Intanto proviamo a capire, per una volta ci aiuta anche la buona tv
In Italia la prima causa di morte per le donne tra 16 e 49 anni è la violenza di mariti, compagni, ex fidanzati. Nel 2012 sono già quasi 60 le vittime della violenza maschile, e il trend degli ultimi anni non lascia nessuno spazio all’ottimismo. In Europa, del resto, siamo il paese con il più alto tasso di delitti in famiglia, quasi tutti perpetrati contro le donne.
In questi giorni il tema rimbalza spesso sui media, si parla di “femminicidio” e si moltiplicano gli appelli di intellettuali, politici, artisti per fermare questa terribile strage, difficile chiamarla in altro modo. Ma gli appelli lasciano spesso il tempo che trovano, e servono più a far sentire bene chi li lancia che le donne a cui sono destinati. È il caso invece di agire, e per agire bisogna capire. In tal senso, per una volta, può aiutare anche la televisione: da anni la trasmissione Amore criminale di Rai tre – condotta prima da Camila Raznovich e oggi da Luisa Ranieri – indaga e racconta queste storie di gelosia morbosa e violenta, questi legami malati che sfociano nella sopraffazione e nell’annullamento dell’altro.
Che cosa si può capire da queste storie e dalle testimonianze di chi è riuscita ad uscire dall’incubo? Quello che già sappiamo, e che abbiamo sentito ripetere tante volte, sulla cultura maschilista del nostro Paese, sulla tendenza di certi uomini a considerare la propria compagna come una proprietà, quindi un oggetto privo di autonomia e volontà, parte di una sorta di patrimonio inalienabile da difendere a qualsiasi costo.
Certo, c’è tutto questo, ma forse anche qualcosa di più. C’è anche una cultura patriarcale che vede nella famiglia il centro di tutto, l’universo imprescindibile attorno a cui deve ruotare l’individuo. I sociologi dicono che nelle società moderne contano di più le caratteristiche acquisite, ciò che uno è riuscito a conquistarsi col proprio impegno e lavoro, piuttosto che l’appartenenza a un gruppo, in primis quello della comunità e della famiglia, che nelle società tradizionali definivano lo status della persona.
Ecco, questo aspetto della modernità in molte parti d’Italia non è ancora passato. Un uomo si sente qualcuno solo in rapporto al suo essere marito e padre, solo in relazione alla sua collocazione all’interno di una famiglia di cui si sforza disperatamente di essere ancora il centro. Quando tutto questo traballa, quando il rapporto di coppia si sgretola, questi uomini si sentono privati della loro dimensione sociale, della loro dignità e cittadinanza. E reagiscono nei modi drammatici che conosciamo. Insomma, di troppa famiglia si muore.
(L’immagine è presa da Mondo Donna).