White fragility, la difficoltà dei bianchi nell’affrontare il razzismo

Evelyn Novello

Nata a Milano nel 1995 e laureata in Comunicazione pubblica e d'impresa. Nel 2016 mi sono avvicinata al mondo del giornalismo e da quel momento non più smesso di scrivere.

Tag: donne
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Le questioni razziali sono uno dei temi più dibattuti da un anno a questa parte.

Il Black Lives Matter ha sollevato problemi ancora attuali e mai risolti in America e ciò ha esteso il dibattito a tutto il mondo. In questo contesto è nato il concetto della white fragility, ovvero, la resistenza delle persone bianche a parlare di razzismo, negando le accuse e mettendosi sulla difensiva.

White fragility: cos’è

Il termine deriva dal titolo di un libro del 2018 della scrittrice Robin DiAngelo. L’opera è tornata sotto ai riflettori l’anno scorso fino a finire in cima alla lista dei best seller del New York Times dopo l’uccisione di George Floyd nel maggio 2020 e il motivo è facilmente immaginabile.

“White fragility” sta ad indicare, secondo un primo uso del termine di DiAngelo nel 2011, la propensione dei bianchi a respingere le accuse di razzismo attraverso una serie di argomentazioni poco convincenti e realistiche.

La scrittrice dice che la società americana è intrisa di una cultura razzista e biancocentrica che rende il razzismo un fenomeno sistemico e, proprio per questo, i bianchi faticano a rendersi conto del problema. Ma come si manifesta in concreto? Secondo la scrittrice la white fragility è un meccanismo di difesa automatico che si concretizza in molti modi.

Uno dei modi più usati è il concern trolling, ossia l’espressione di una finta preoccupazione con cui si vuole o si crede di appoggiare la causa togliendosi quindi ogni responsabilità.

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White fragility: i motivi alla base

Secondo DiAngelo la white fragility nasce dalla volontà dei bianchi di salvaguardare il loro privilegio, perpetuando di fatto nel tempo quelle gerarchie razziali che da secoli dividono il Paese.

Centrale secondo la scrittrice è il concetto di privilegio bianco inconscio che fa sì che “il privilegiato” spesso non si renda nemmeno conto dei vantaggi di cui gode.

Anche il concetto stesso di “privilegio” è stato indagato da alcuni studiosi e così è stato definito nella sua forma moderna da Peggy McIntosh, ricercatrice al Wellesley Centers for Women, nel suo saggio del 1988 dal titolo White Privilege: Unpacking the Invisible Knapsack: “Sono arrivata a vedere il privilegio bianco come un pacchetto invisibile di beni non guadagnati che posso contare di incassare ogni giorno, ma di cui ero destinata a rimanere all’oscuro”.

White fragility: le critiche

Sebbene le basi da cui parte la scrittrice DiAngelo siano ampiamente riconosciute, le sono state mosse anche alcune critiche. Una riguarda la tendenza ad ignorare le differenze all’interno della popolazione bianca e a considerare i bianchi (definiti da lei “whitehness”) come un unico blocco senza sfumature al suo interno.

Questo ragionamento, se vogliamo, non è molto distante da quello razzista che vede i bianchi avere diritti solo per il fatto di essere bianchi.

Secondo John McWorther, collaboratore di The Atlantic e professore alla Columbia University, l’opera di DiAngelo finisce poi per sminuire i neri negando tutte le conquiste raggiunte negli anni. Insomma, il tema è complesso e necessita di ulteriori approfondimenti, sicuramente di per sé costituisce uno spunto di riflessione soprattutto in merito agli episodi di matrice razzista che ancora scuotono l’America.

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